Dal Blog Bagatelle Magazine
”Quando Claudio Pasceri ci chiese di lavorare a un pezzo per quartetto d’archi e percussione in cui il percussionista non potesse fare altro che improvvisare, la sorpresa fu superata solo dalla richiesta di comporre il pezzo collettivamente, ossia non più, come avevamo fatto in passato, riunendo pezzi diversi composti autonomamente – sebbene legati da un sottile filo -, bensì componendo un pezzo collettivo, a otto mani. Tale richiesta aveva suscitato in me non poche perplessità, non tanto in relazione ad un possibile soffocamento dell’arbitrio individuale, quanto per il timore che l’equilibrio complessivo del lavoro potesse essere irrimediabilmente compromesso. Comporre musica significa prima di tutto – come sempre nella vita – effettuare delle scelte la cui riuscita, o il cui fallimento, emerge a distanza, quando sono germogliate e hanno intrapreso la propria via. Queste scelte avvengono sempre in modo solitario, in modo che, trovata l’idea, ci si prenda la responsabilità individuale di decidere il modo in cui plasmarla e di pianificarne il futuro. Ma qui l’idea era inesorabilmente condannata a passare come staffetta dalla mano di uno a quella dell’altro, senza che chi l’avesse avuta potesse più disporne in piena libertà..
Non ricordo esattamente come e da chi sia partita l’idea di collaborare nella composizione. Ma trovo che questa mia amnesia, considerata l’origine comunque assai recente del progetto, sia assai indicativa. Sia una prova sufficiente della riuscita nell’intento di creare una entità autonoma e produttiva in cui si fondano le nostre sensibilità. So di per certo e ricordo – altrimenti sì, sarei da immediato ricovero in neurologia – che i nostri due soli precedenti di firma collettiva si contentavano della formula più immediata di una somma di singoli contributi. Che, come è facilmente intuibile, è ben altra cosa. Personalmente, quindi, ho vissuto e vivo questa esperienza con grande naturalezza e, oserei dire, necessità. Inoltre, forse per la buona sintonia con i miei compagni o forse per la finora fortunata combinazione dei casi, senza accusare il problema della libertà individuale. Innanzitutto, credo che l’argine più forte a questo timore stia nella autonomia con cui ognuno di noi quattro porta avanti la sua propria esperienza compositiva, che ha vita parallela al collettivo, con maggiore o minore soddisfazione, ma pur sempre autosufficiente. Non mi sembra di essermi mai posto problemi di limitazione alla mia libertà che non fossero quelli di qualunque iterazione con altri esseri senzienti, ossia di rispetto e di sforzo di comprensione di mondi che non siano noi stessi e con cui ogni giorno ci troviamo a interagire. La stima e l’amicizia, poi, certamente facilitano questo compito. Cosa potrei dire? …
Non si è trattata della mia prima esperienza di residenza artistica – occasione che trovo sempre formidabile perché capace di donare un’aura di rispettabilità all’ozio. Devo dire che non mi è mai capitato di vedere il lavoro di gruppo come una limitazione in sé: tolto il fatto che nemmeno la commissione esisterebbe se non esistesse il gruppo, di certo il risultato finale è altro da me, non un “mio’’ brano, un’espressione della mia personalità, ma di quella di un insieme, al quale io ho contribuito. Forse deriva dal mio essere sempre in relazione con una collettività, che sia essa una squadra sportiva o una semplice classe; da che io ricordi lo ‘stare insieme’ è per me una rete che avvolge qualsiasi ambito, dalla quale non posso esimermi. L’esercizio dell’attività nell’atto compositivo collettivo rispecchia per me il modello sociale civilizzato, nel quale io, cittadino, sono vincolato da norme convenute per evitare di danneggiare l’altro (e soprattutto per evitare di essere danneggiata io stessa!). Nella Repubblica In.Nova Fert vige una seriosa democrazia che si piega più spesso alle tendenze anarchiche: tolto qualche momento di voto in ambito organizzativo (il fatto di essere al tempo stesso compositori, esecutori e organizzatori di eventi non aiuta la già ben articolata rete di relazioni), non abbiamo ancora redatto un nostro codice di Hammurabi. La differenza tra In.Nova Fert e il mondo reale sta tutta in questa delicata fortuna, che comunque alimentiamo con cura: nel non sentire cioè la necessità di definire delle regole, poiché i valori che ne stanno alla base sono tutti spontaneamente condivisi da tutti e quattro, senza bisogno di imporne l’approvazione o il rispetto. E questa, lo garantisco, è un’enorme facilitazione del processo…
Un’idea ti può cogliere in qualsiasi momento. A quel punto sei obbligato a focalizzarti su di essa, scomporla nelle sue caratteristiche e potenzialità di sviluppo, per poi ricomporla in qualcosa di più strutturato. L’idea comincia così a prendere forma, e continuamente si rafforza per via di connessioni che riesce ad instaurare con altro materiale musicale o, talvolta, con differenti suggestioni che in quello stesso momento provengono da elementi esterni. Per giorni interi si ha l’impressione di guardare con occhi nuovi un quadro già visto tante volte, o di leggere quella stessa idea fra le righe di un libro che si stava leggendo da molto tempo prima. E così l’idea non solo si sviluppa ruotando su se stessa, ma comincia a concretizzarsi proprio nel momento in cui instaura legami con altre idee. Il fatto poi che il brano musicale che ne scaturisce corrisponda appieno a quella molecola di idee prima soltanto immaginata, è un fatto meramente tecnico… ma la convinzione del compositore, in quei faticosi giorni di “traduzione” dell’idea su carta, è talvolta così assoluta e totalizzante da far perdere di vista tutto il resto. Questo è il problema maggiore che insorge, a mio avviso, quando si lavora a più mani sullo stesso brano: saper scendere a compromessi con persone che hanno una propria visione del mondo e della Musica, nonché un proprio modo di lavorare e di esprimersi, di pensare e di scrivere. Può succedere di lavorare per ore su qualcosa che poi, per un motivo o per un altro, viene scartata dagli altri, e l’affetto cieco che si prova nei confronti di quella propria idea riesce difficilmente a passare in secondo piano. Ci si chiede dove si è sbagliato – non riuscendo sempre distinguere che un giudizio dato da altri su una propria ispirazione musicale non è assolutamente un giudizio personale – oppure ci si tormenta…
Quando decisi di invitare il Collettivo In.Nova Fert ad EstOvest Festival, commissionando un brano per percussioni e quartetto d’archi, non avevo sentito una sola nota scritta da questo gruppo di brillanti musicisti/ pensatori con base a Bologna . Con ciò non ho pensato nemmeno per un istante di compiere un gesto azzardato o poco ponderato, In.Nova Fert mi aveva convinto pienamente. Avevo letto di una stagione musicale all’interno della quale erano responsabili dell’organizzazione di un certo numero di episodi , tra concerti e conferenze. Osservandone i contenuti , sono rimasto talmente colpito dalla competenza, dall’energia, dalla qualità di ogni percorso musicale intrapreso e dal profilo degli ospiti da loro invitati , che mi sembrava di veder emergere da quelle scelte un rigore ed una maturità artistica fuori dal comune.
Non avevo nessun dubbio, Livia Malossi, Marco Pedrazzi, Alessio Romeo e Diego Tripodi avrebbero arricchito il messaggio che EstOvest Festival intende veicolare da ormai quasi vent’anni.
Marco Pedrazzi, membro di In.Nova Fert, era mio allievo presso l’Accademia di Musica di Pinerolo. È con lui dunque che abbiamo fatto le prime considerazioni rispetto al progetto Inizi , dalla residenza artistica del Collettivo durante l’estate 2019 sino a quanto accadrà venerdì prossimo 17 novembre, quando il percussionista Tete Da Silveira e il NEXT-New Ensemble Xenia Turin tradurranno in suoni un’esperienza che ha arricchito me per primo. Dia Logos.”
Per leggere l’intero l’articolo, vai su Bagatelle Magazine